E Città del Capo non delude le aspettative; oceano, foresta,
aree naturalistiche, montagne e tessuto metropolitano si susseguono ed
intrecciano con equilibrio ed armonia.
Il risultato è fantastico, lo spartito magnifico. La Table Mountain, rilievo totalmente piatto ne rappresenta il centro geografico ed è un luogo eccellente da cui ammirare e scoprire le geometrie e le linee di questa città, di come parla con il mare, e scrutare con brividi e lacrime la desolante Robben Island.
L’altipiano rappresenta una fantastica attrazione
naturalistica in cui animali selvatici ed una varietà infinita di piante sono
una piacevole e continua scoperta. La cima piatta si può raggiungere sia con la
teleferica (spesso chiusa per vento) con una fantastica escursione (semplice
solo all’inizio, poi abbastanza ardua). Fare la passeggiata la domenica mattina
significa condividere questa piacevole esperienza con decine di famiglie
capetoniane.
Ugualmente spettacolare è la strada (da percorrere in
macchina o, per i super allenati, in bicletta) che dalla base della
teleferica porta a Lion’s Head ed Signal
Hill; è un tragitto ci ha regalato alcuni dei panorami più suggestivi di Cape
Town.
Come emozionante è stato giungere in città dalla N1 e
ritrovarsi di fronte un enorme ritratto di Mandela realizzato su un’intera facciata di un
palazzo. Forza e passione.
Città del Capo è vento ed odore del mare. Azzurro su verde,
e stili architettonici su cui si accavalla un continuo processo di
modernizzazione (talvolta devastante). Processo che ha generato ampli stradoni,
palazzi in acciaio e vetro, geometrie talvolta eccessive, che però, non
riescono ad offuscare il fascino di questa metropoli. Città in cui persistono
ed emergono con chiarezza e durezza grandi problemi e squilibri, tra
sovraffollamento e mancanza di servizi, ville e township; in cui povertà e
disoccupazione fanno sanguinare l’anima. Una città in cui il cemento ed il
grigio rincorrono e molto spesso raggiungono le vecchie linee, ma è sempre
possibile stupirsi con una piega di colori nel prossimo vicolo.
Camminare per Stand Street, osservare le curve e lo stile
che riportano all’Europa del 1800, ammirare mercati tipici ed artigianato
locale, respirare odori che vengono dall’oriente lasciano a dir poco felicemente
spiazzato. Nella punta estrema dell’Africa, questo continente si mescola e si
fonde, culturalmente, con Asia ed
Europa. Cafffè e curry, odori e suggestioni dai molti food store in cui
fermarsi e mescolare sapori. Tra i vari locali, ricordo con piacere una
caffetteria su Loop Street che caratterizza il suo stile con richiami alla
bicicletta ed al cicloturismo: presenta varie offerte per conoscere la penisola
del Capo su 2 ruote, oltre a vendere magliette ed accessori davvero belli, con un packaging stiloso (www.apresvelo.com) .
E’ piacevole gironzolare tra Long Street – da vedere ed
ammirare il Pan African Market – ed
il mercato dei fiori di Adderley Street.
In un giardino bambini di ogni etnia giocano insieme, si
rincorrono, cadono e sorridono. Restiamo a guardarli. Come visioni artificiali
si sovrappongono immagini viste nei chilometri percorsi, township, povertà ai
bordi della strada. Colori che squarciano il buio. Forse. Forse l’arcobaleno è
possibile. Forse.
Da un laboratorio di moda esce l’inconfondibile voce di Mama
Africa, Miriam Makeba.
Respiro le note, suoni che hanno il sapore della terra e
degli alberi, di questo atelier, in cui arte e territorio si uniscono
all’armonia della musica. Sorrido al
tramonto, a questa canzone Sunset Africa. Colgo l’attimo, il kairos, respiro a
pieni polmoni le ultime note.
Qualche passo e dei bambini mi chiedono degli spicci. Forse,
penso, forse. I loro occhi sono profondi scrutano. Spero abbiano dubbi, spero abbiano
possibilità. La loro pelle è nera: la povertà ha ancora un colore della pelle,
anche qui, nonostante il tramonto, nonostante l’arcobaleno, nonostante le note.
E’ come passare dallo stato gassoso a quello solido, lascio
loro un po’ di rand. Vedo una Chiesa, un’agenzia di viaggio pubblicizza un
viaggio a molti zeri. E’ancora troppo vicino il ’91; e tra forma e sostanza il
tempo si accorcia ulteriormente. Continuo a camminare, a scorrere, fluido;
stato magmatico nei miei pensieri.
Prendiamo la macchina, nel traffico di un giovedi di inverno
(in Italia è estate) e con la guida a destra c’è sempre un po’ di suspence;
arriviamo nel nostro alloggio , il Drey Lodge, un simpatico appartamento senza
infamia né lode gestito da un chiaro discendente dei boeri, al confine tra i
sobborghi di Rodenbosch e Newlands. Un altro romanzo di Deon Meyer, Safari di sangue
(davvero godibile, il migliore che ho letto di questo autore) ambienta alcune
scene qui, per poi snodarsi tra chilometri e paesaggi.
Querce, giardini e famosi stadi di cricket e rugby, sembra
di attraversare una campagna del nord europea. Padroni portano a passeggio i
propri cani. Sono così vicine e così lontane le township. Decine di chilometri
ed un altro mondo. Il paese dell’arcobaleno è anche questo, lo comincio ad
afferrare con chiarezza.
Al risveglio fa freddo, ma il sole preannuncia una splendida
giornata. E dai prati dei sobborghi meridionali con un nuovo spartito
affrontiamo e scopriamo ancora la città.
Il profilo delle acacie si staglia sui versanti delle
montagne. Un film di immagini, di colori, di attimi da ricordare. Bo Kap, quartiere tipico, salvato dalla
folle distruzione dell’apartheid che ha raso al suolo il suo gemello Six
District, abitato dalla comunità musulmana. La mente viaggia su alcune pagine
di Carta Bianca di Deaver, libro che sconsiglio vivamente (l’autore – e sto
facendo outing – a me non dispiace, ma questo volume della saga di James Bond è
profondo meno di una vaschetta per il ghiaccio). Il Waterfront , il vecchio porto della città, oggi salvato
dall’abbandono e trasformato in un moderno polo turistico, con vari ristoranti – che offrono ottimo pesce
–artisti di strada ed offerta di escursioni in mare e nella città.
E’ dal Waterfront che ci si imbarca per la desolata e
desolante Robben Island. Isola piatta, battuta dal vento e dalle intemperie, in
cui la gioia è stata più forte del potere. Il
seme della resistenza, della civiltà e della disobbedienza, piantato e curato
dalle lacrime, dai sogni e dal sangue di prigionieri in grado di essere duri
senza perdere la tenerezza, ha dato nuova dignità a tutti noi .
Saluto le statue di Mandela, monsignor Tutu, Lutuli
(fondatore ANC) e De Klerk, tutti insigniti del premio Nobel per la pace. E
penso di giocare a “trova l’intruso”; c’è ve lo assicuro
: chi costruisce ha una
statura etica altra rispetto a chi raccoglie (e magari fino a qualche tempo
prima era un meccanismo dell’ingranaggio). Continuo a camminare, felice, in
questa area che riterrei un po’ troppo turistica ovunque, ma non qui, con
l’Oceano di fronte e la Table Mountain dietro. Mi gusto gli edifici vittoriani,
i caffè che non vogliono hipster ed anche le foto “ricordo” con il profilo
della montagna piatta.
Passando sotto la Torre dell’Orologio giunge, portato dal
vento, qualche pezzo Kwailo (significa
arrabbiato) e nasce dalla contaminazione tra house, atropo e beat. Un sound
meticcio, denso, ricco di suoni, paradigma delle metropoli di questo paese.
Dalle note ai fiori, spartiti di musica e colori. Piante,
alberi, biodiversità, gioia: tutto questo è il fantastico Kirtenbosh National
Park, primo giardino botanico ad essere riconosciuto patrimonio dell’UNESCO. Ci
sono oltre 22000 specie di piante, con uno sfondo ed una cornice da sogno.
E’
possibile passeggiare e vagare in questo giardino per ore, attraverso percorsi,
scale e ponti.
Un nuovo tramonto e poi il buio. Saluto le prime stelle (che
non riconosco), mentre prepariamo i bagagli. Giorni e notti sono volati a Città
del Capo, che non mi ha deluso. E le aspettative erano alte.
Ci prepariamo ad altri orizzonti e sorprese, molto vicino,
questa volta: c’è la Penisola del Capo e la leggenda in cui storia e natura
danzano insieme.
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