venerdì 7 ottobre 2016

Narrare la fine dell’era dell’acquario – Tre romanzi che raccontano un sogno perduto

In questo articolo si parla di tre grandi romanzi, diversi tra loro per genere, uniti dalla stessa sensibilità. Il cantare la fine di un epoca di amore e rivolta. Un era in cui si verificarono profondi sconvolgimenti. Un tempo in cui i giovani assaltarono il cielo.
Lo scenario in cui sono ambientati i 3 romanzi
L’era dell’acquario è finita. La controrivoluzione avanza tritando il sogno di milioni di giovani di rovesciare il mondo. Il decennio settanta, negli Stati Uniti, inizia imprigionato dentro un dispositivo tecno militare paranoico. Alle ossessioni del vecchio capo del FBI  J. Edgar Hoover – per pantere nere e gruppi del black power – si aggiungono la fobia del nuovo presidente Nixon per gli hippy. In quei giorni l’inquilino della Casa Bianca non dormiva sonni tranquilli a causa di ragazzi capelloni, drogati e bombaroli. In Vietnam l’esercito più potente al mondo stava perdendo la guerra grazie all’eroica resistenza del popolo vietnamita e al rifiuto di una generazione di uccidere per esportare la “democrazia” americana. L’offensiva reazionaria sfrutta gli avvenimenti successi nella notte tra l’8 e il 9 agosto del ’69 a Bel Air. In questa località collinare, dove amavano vivere le star di Hollywood, era stata compiuta una strage: delle persone penetrano dentro la villa del regista Roman Polaski uccidendo sua moglie, la bellissima attrice Sharon Tate, e quattro sfigatissimi ospiti che si trovavano nella casa in quel momento. Gli assassini tracciano, sui muri della villa, con il sangue delle vittime le scritte Helter Skelter Piggies, titoli di due canzoni contenute nel White Album dei Beatles. Il 12 ottobre la polizia arresta i presunti colpevoli: Charles Manson e cinque componenti della “family”, che orbita intorno a lui, una strana aggregazione a metà strada tra comune hippy e setta esoterica. Se prima di questi arresti la middle class quando vedeva un capellone rideva. Dopo aveva paura di incrociare il proprio sguardo con quello di un hippy. Questo era quanto di meglio si potesse dare in pasto ai media per criminalizzare la controcultura. Il 4 maggio ’70 alla Kent State University, Ohio, la guardia nazionale apre il fuoco sugli studenti che manifestavano contro la guerra. Quattro vengono uccisi e nove feriti. Il 14 dello stesso mese due studenti afroamericani muoiono e dodici restano sul terreno feriti per mano della polizia, nel corso di una dimostrazione alla Jackson State University, Missisipi. Continuo questa lista di tragici eventi con il concerto dei Rolling Stones a Altmont dove venne assassinato dagli Hells Angels – ingaggiati da Mick Jagger per fare il servizio d’ordine – il giovane afroamericano  Meredith Hunter. Concludo il necrologico con le morti di Jimi Hendrix e Janis Joplin avvenute rispettivamente l’8 settembre e il 4 ottobre del 1970.
Paura e Disgusto a Las Vegas

Paura e Delirio a Las Vegas è un romanzo, pubblicato nel 1971,  in parte autobiografico di Hunter S. Thompson incentrato su di un viaggio effettuato dall’autore alla volta della città di Las Vegas nel Nevada. Il libro racconta le avventure allucinate del giornalista sportivo Raoul Duke (alter ego di Hunter S. Thompson)  e del suo avvocato samoano il Dr. Gonzo (nome dietro il quale si cela in realtà l’avvocato e attivista chicano Oscar Zeta Acosta) in viaggio – su una Chevrolet  decappottabile rossa con un bagagliaio pieno zeppo di droghe e alcol – direzione Las Vegas. La capitale del gioco d’azzardo e del sogno americano a basso costo. I nostri eroi devono prima assistere alla Mint 400,  famosa e sgangherata corsa di moto e dune-Buggy nel deserto, e successivamente seguire i lavori della conferenza antidroga dell’associazione nazionale dei procuratori distrettuali. Sotto l’effetto di un miscuglio di sostanze che non teme confronti – cocaina, LSD, etere, stramonio, mescalina e molte altre – assistono a una trasformazione totale della realtà che assume molteplici e imprevedibili sfaccettature. Da quelle psichedeliche, colorate e fantastiche a quelle grottesche, tragiche e disperate. I due alterati protagonisti si scontrano con la realtà allucinante e kitsch della Las Vegas dei casinò. Un libro di culto scritto in puro stilegonzo journalism, sorretto da dialoghi strepitosi, dipinge un magistrale quadro degli Stati Uniti di quegli anni. L’America degli sconfitti persi in un abisso che le droghe e i miti andati in frantumi non hanno saputo colmare. Consiglio i lettori di leggerlo – come ha fatto il sottoscritto – in macchina viaggiando da Red Rock, in Arizona, a Las Vegas.
I mastini del Dallas
I Mastini del Dallas romanzo scritto da Peter Gent ex giocatore professionista di football della Nfl. L’autore nel 1973, data di uscita del libro, ebbe il coraggio di ribellarsi al sistema e all’avanzata di un nuovo modello di sport votato esclusivamente al denaro e all’immagine. Una profezia che indica la direzione che avrebbe preso l’America – non solo nello sport – fatta radiografando i reni e la colonna vertebrale dei vecchi giocatori. Il romanzo racconta gli otto intensi giorni, da una partita  all’altra, di Phil Elliott spesi nel tentativo di conquistare un posto da titolare o quantomeno un prolungamento di contratto. L’autore ci narra la vita di un giocatore artritico e a pezzi che si regge in piedi a colpi di codeina, ghiaccio, siringhe, marijuana e alcol. Il tutto inserito negli Usa di inizio ’70 quelli delle marce di protesta contro la guerra del Vietnam, delle paranoie anti-hippy e del razzismo. Magistralmente descritta la pezza di mescalina che si prende a Phil. Un romanzo di  una devastante carica eversiva.
Vizio di Forma.
Vizio di Forma è un romanzo scritto nel 2009 da, uno dei maestri del postmoderno, il misterioso Thomas Pynchon. La storia e ambientata a Los Angeles, per la precisione a Gordita Beach località abitata da hippy e surfisti,  nel 1970. Alla presidenza della nazione c’è Nixon che continua a inviare truppe non solo in Vietnam ma anche Cambogia. La guardia nazionale spara agli studenti alla Kent State University e Charles Manson è accusato della strage di Bell Air. Il detective privato Larry Doc Sportello della LSD (Localizzazione, Sorveglianza, Discrezione) Investigazioni – perennemente fatto di   erba che gli addolcisce il mondo – riceve un incarico dalla sua ex fidanzata Shasta. La donna , che ora ha una relazione con il proprietario immobiliare Mickey Wolfmann, gli chiede di sventare il tentativo della moglie di farlo internare in manicomio. Contemporaneamente Doc accetta anche un secondo lavoro rintracciare, un uomo scomparso, Glen Charlock che guarda caso e la guardia del corpo di Wolfmann. Il nostro sballato investigatore riceve un altra delega: rintracciare il defunto musicista Coy Harlingen che la vedova ritiene sia ancora vivo. In certi momenti questo noir ricorda Il lungo addio di Raymond Chandler. Come nel hard boiled classico Pynchon procede per accumulo, ma la direzione della trama non porta alla comprensione, alla soluzione giudiziaria, ma verso il caos. L’autore attraverso il noir – genere che racconta gli Stati Uniti meglio di altri – ricrea il mondo perduto dei ’60. Un libro da leggere assolutamente. Magnifico!

LIBRI PER LEGGERE NEW YORK

Conoscere New York tramite libri e fumetti è possibile. Quale titolo consigliare, tra i migliaia esistenti, al lettore di Laspro è impresa ardua. Impossibile. Troppo vasta la produzione di storie ambientate nella Grande Mela. Con quale coraggio sceglierne alcune a discapito di altre. Tutti oggi conosciamo New York già prima di visitarla, per la prima volta, grazie alle nostre letture. Per non parlare di film, documentari e servizi dei telegiornali che hanno reso attraverso le immagini  familiari ai nostri occhi i luoghi della città. Il turista, durante la prima settimana di permanenza in città, è convinto di esserci già stato. Passeggiare a  Manhattan è un continuo deja vu. Guardare le scale antincendio dei palazzi ci catapulta dentro un inseguimento tra guardie e ladri, dove noi, e non una star del cinema, siamo i fuggiaschi. Consapevole dell’impossibilità di affermare che quelli di cui scriverò sono i libri che meglio rappresentano New York, scelgo a caso dei titoli dagli scaffali della mia libreria.
Partiamo dal thriller storico Il dio di Gotham di Lyndsay Faye (Einaudi). La storia narrata si svolge nel 1845. Timothy Wilde, il protagonista, lavora in un bar ma un incendio brucia il locale che gestisce e lo lascia sfigurato. Trovatosi senza lavoro Timothy accetta, senza entusiasmo, un impiego procurato dal fratello nella neonata polizia di New York, creata su spinta del Partito Democratico. Durante un turno di ronda  nella sua zona di competenza, i Five Points, il quartiere più malfamato della città, si imbatte in una pupattola, una prostituta bambina, i cui vestiti sono coperti di sangue. La ragazzina gli racconta una storia secondo la quale decine dei suoi coetanei sarebbero stati uccisi e sepolti nella foresta nei pressi della 23ma strada. Il romanzo è un thriller piacevole da leggere ma la sua forza è nella ricostruzione della vita della città a metà Ottocento. Il corpo stabile di polizia aveva difficoltà di affermazione poiché inviso ai nativi newyorkesi, in quanto in antitesi ai valori patriottici della rivoluzione. L’abolizione dello schiavismo negli stati del Nord non determinò emancipazione e integrazione degli afroamericani. E poi c’era il problema della massiccia immigrazione, in quegli anni, degli irlandesi a causa della peste della patata che affamava l’Irlanda.
Il secondo libro consigliato, se volete saperne di più sui Five Points, è C’era una volta New York Storia e leggenda dei bassifondi di Luc Sante (Alet edizioni). L’autore è stato il consulente storico di Martin Scorsese per il film Gangs of new york. Questo saggio si può descrivere come un trattato sui vizi e le insidie che la città offriva alle classi subalterne nell’Ottocento. Si legge nella prefazione: «New York è una costellazione molto più grande della somma  delle parti che la compongono; è una città e anche una creatura, una mentalità, una malattia, una minaccia, un’elettrocalamita, un apparato scenico da quattro soldi, un catalizzatore di disgrazie». Il libro ci parla della nascita di luoghi che ancora oggi rappresentano il mito della Grande Mela. Strade popolate da figure metropolitane, il barista con i baffi a manubrio, il delinquente con la maglia a righe, il giocatore di poker con la visiera verde e lo sbirro che fa roteare il manganello,  immagini assimilate nel subconscio della città che assumono, per gli abitanti, i contorni di una vera e propria tradizione. Come altro spiegare  che la Bowery mantiene ancora il sentore di bettola e di bordello che non merita più dalla prima decade del secolo scorso, forse dipende dal fatto che i Bowery Boys, una delle prime gang della città, hanno ispirato commedie e film fino al 1958. Sicuramente il mito della Bowery, si rifondava nella seconda metà degli anni ’70 del Novecento in un locale, il CBGB’s, dove nasceva il punk.
Abbandoniamo le leggende e le gangs di New York per passare a due libri del grande scrittore Jonathan Lethem. Citarli a un tavolo di hipster in un locale del Pigneto permetterà al lettore di Laspro di spiacionare e rimorchiare. Il primo romanzo Chronic City (Il Saggiatore) è ambientato in una Manhattan soggetta a perenni nevicate – i fiocchi cadono in tutte le stagioni – dove la popolazione vive terrorizzata a causa dei continui avvistamenti di una tigre. Il protagonista Chase Insteadman, campa grazie ai diritti di immagine derivati dalla sua giovinezza da star di una popolare sit-com. La sua presenza è sempre richiesta nel jet set anche per via di una tragedia in pieno svolgimento cui i tabloid riservano molta attenzione: la sua fidanzata è alla deriva, a bordo di una stazione spaziale, nella stratosfera. Nella sua vita artificiale, una routine cadenzata da feste e cene esclusive nell’Upper East Side, entra prepotentemente in scena Perkus Tooth, un critico pop farneticante, complottista e paranoico. Perkus con la sua sapienza controculturale, aiutato dall’abuso di marijuana, attira Chase in un’altra Manhattan, dove gli interrogativi su cosa sia reale e che cosa sia falso assumono un’urgenza sconvolgente. Un romanzo eccezionale. Un capolavoro!
L’ultimo lavoro di Lethem, uscito in Italia nell’aprile 2014, I giardini dei dissidenti.(Bompiani) è un affresco del comunismo statunitense dagli anni ’30 del secolo scorso alla nascita di Occupy Wall Street.  A chi scrive, questo romanzo ha ricordato, nella struttura e nella scrittura, Underworld di Don DeLillo (Einaudi), che io considero il più grande romanzo della seconda metà del NovecentoI giardini dei dissidenti ci racconta di due donne eccezionali: Rose Zimmer, nota a tutti come la Regina Rossa di Sunnyside, zona del Queens famosa per il suo esperimento di architettura socialista, è una comunista ortodossa che s’impone con  la sua personalità a famigliari, vicini di casa e membri del partito. La figlia Miriam è impregnata di sogni utopici e desiderosa di fuggire dall’influenza della madre per abbracciare la controcultura del Greenwich Village. A un certo punto del romanzo – anche nell’opera di Lethem ricorre il mito della Bowery – Miriam dirà, mentre cammina durante una bufera di neve per la prima volta  insieme al suo futuro marito Tommy: «Sai perchè si chiama Bowery? Qui è dove un tempo New York finiva. (…) Gli Olandesi avevano questo sentiero che conduceva alle fattorie e ai boschi. Qui c’era un padiglione, una bower, una specie di pergola gigante (…). Passavi attraverso il padiglione, e uscivi dalla città, entrando nel territorio selvaggio».
Finisco i miei consigli con New York di Will Eisner (Einaudi) la più importante graphic novel della storia della letteratura. Non essendo degno di scrivere di un opera così immensa farò parlare direttamente l’autore. «Viste da lontano, le città sono un mucchio di grandi edifici, grandi quantità di persone e grandi aree. Ma questo per me non è “reale”. La realtà è come la grande città viene vista dai suoi abitanti. La vera immagine è nelle crepe del suolo e nelle piccole componenti delle sue architetture, là dove turbina la vita quotidiana». Chi non conosce il lavoro di Will Eisner colmi subito questa voragine correndo dal proprio libraio di fiducia.
Il Tacco del DUKA

mercoledì 5 ottobre 2016

Il sogno di Alice : la grande mareggiata che sovvertì l’etere

Mi è venuto spontaneo iniziare la recensione de Il Sogno di Alice (creatività e suoni 1976-77) di Felice Liperi sulle note di White Rabit dei Jefferson Airplane, brano di apertura della prima trasmissione di Radio Alice. Il saggio in questione ripercorre la nascita delle radio libere nel Belpaese – che diede il la alla più grande rivoluzione linguistica avvenuta nell’Italia del novecento.La creatività rivoluzionaria del proletariato giovanile cavalcò l’onda scaturita dalla sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1976 – che toglieva il monopolio alla RAI consentendo la libertà di trasmissione anche ai privati – invadendo l’etere in un assalto al cielo consapevole che non c’è futuro.
Il saggio apre con la descrizione dell’arretratezza dei linguaggi e delle proposte – soprattutto in ambito musicale – della radio e della televisione di stato in Italia: paese – talmente bacchettone – che prima di questo decreto era stata capace di censurare, non solo i giovani cantautori – De Andrè e Guccini – che rivoluzionarono la canzone italiana, ma anche cantanti nazionalpopolari come Modugno. L’autore prende giustamente le distanze dalla vulgata sinistronza che vede nella nascita della libera emittenza l’inizio – della propria fine – dell’egemonia culturale di craxismo e berlusconismo. Liperi riconosce la rivoluzione che modernizzò il paese innescata dal movimento del ’77, una potenza che accumulava forza grazie a un utilizzo altro del  telefono, che permetteva un feedback tra speaker e ascoltatori e si avvaleva del microfono aperto. Per la prima volta gli ascoltatori non sottostavano al messaggio: erano il medium. Le forme di vita – attraverso comportamenti sociali autonomi e diffusi – occuparono la modulazione di frequenza strappando allo stato il monopolio della comunicazione, riappropriandosi della diretta fino a quel momento appannaggio delle sole messe natalizie e partite di calcio.
Allora, una  generazione di non garantiti – che diede vita a un indecifrabile  movimento – rivoluzionò i linguaggi attraverso la musica, la grafica, il fumetto liberando – per una breve stagione – l’infosfera (il futuro cyberspace). Il Sogno di Alice è senza dubbio un buon libro che consiglio alle nuove generazioni per capire le origini di consumi culturali, stili e pratiche antagoniste che caratterizzano i movimenti di oggi. Non sono d’accordo con la visione dicotomica di Liperi – a mio avviso scivola nella solita buca – di un settantasette diviso in creativo vs violento. Quel movimento aveva – come l’idra – un unico corpo e molte teste. I versi di Manfredi, Skiantos e Gaz Nevada raccontano, con ironia, la violenza delle strade di quei giorni. Lo stesso fece il fumetto. Basti ricordare una delle prime storie di Ranxerox – disegnato da Tamburini – con gli spari del protagonista sulla vecchietta – con in tasca L’unità – che ha venduto agli sbirri il padre – e suo costruttore – latitante. Dissento dall’autore quando definisce le ambientazioni metropolitane – pullulanti di drogati, teppisti e prostitute – del coatto sintetico come anticipatrici degli scenari di Gomorra. I lavori di Tamburini e Liberatore sono radicali, nello stile e nel pensiero. L’opera di Saviano no. In ultimo, non mi sarei aspettato che un critico musicale vedesse nella Banda Osiris – di dandiniana memoria – la continuazione dei mitici Skiantos. Concludo con le parole di Radio Alice durante l’insurrezione di marzo: “Tutti abbiamo fatto le molotov. Tutti abbiamo lanciato le molotov”.

lunedì 3 ottobre 2016

Sudafrica: suggestioni a Cape Town



E Città del Capo non delude le aspettative; oceano, foresta, aree naturalistiche, montagne e tessuto metropolitano si susseguono ed intrecciano con equilibrio ed armonia.



Il  risultato è fantastico, lo spartito magnifico. La Table Mountain, rilievo totalmente piatto ne rappresenta il centro geografico ed è un luogo eccellente da cui ammirare e scoprire le geometrie e le linee di questa città, di come parla con il mare, e scrutare con brividi e lacrime la desolante Robben Island.
L’altipiano rappresenta una fantastica attrazione naturalistica in cui animali selvatici ed una varietà infinita di piante sono una piacevole e continua scoperta. La cima piatta si può raggiungere sia con la teleferica (spesso chiusa per vento) con una fantastica escursione (semplice solo all’inizio, poi abbastanza ardua). Fare la passeggiata la domenica mattina significa condividere questa piacevole esperienza con decine di famiglie capetoniane.
Ugualmente spettacolare è la strada (da percorrere in macchina o, per i super allenati, in bicletta) che dalla base della teleferica  porta a Lion’s Head ed Signal Hill; è un tragitto ci ha regalato alcuni dei panorami più suggestivi di Cape Town.
Come emozionante è stato giungere in città dalla N1 e ritrovarsi di fronte un enorme ritratto di Mandela  realizzato su un’intera facciata di un palazzo. Forza e passione.
Città del Capo è vento ed odore del mare. Azzurro su verde, e stili architettonici su cui si accavalla un continuo processo di modernizzazione (talvolta devastante). Processo che ha generato ampli stradoni, palazzi in acciaio e vetro, geometrie talvolta eccessive, che però, non riescono ad offuscare il fascino di questa metropoli. Città in cui persistono ed emergono con chiarezza e durezza grandi problemi e squilibri, tra sovraffollamento e mancanza di servizi, ville e township; in cui povertà e disoccupazione fanno sanguinare l’anima. Una città in cui il cemento ed il grigio rincorrono e molto spesso raggiungono le vecchie linee, ma è sempre possibile stupirsi con una piega di colori nel prossimo vicolo.
Camminare per Stand Street, osservare le curve e lo stile che riportano all’Europa del 1800, ammirare mercati tipici ed artigianato locale, respirare odori che vengono dall’oriente lasciano a dir poco felicemente spiazzato. Nella punta estrema dell’Africa, questo continente si mescola e si fonde, culturalmente,  con Asia ed Europa. Cafffè e curry, odori e suggestioni dai molti food store in cui fermarsi e mescolare sapori. Tra i vari locali, ricordo con piacere una caffetteria su Loop Street che caratterizza il suo stile con richiami alla bicicletta ed al cicloturismo: presenta varie offerte per conoscere la penisola del Capo su 2 ruote, oltre a vendere magliette ed accessori  davvero belli, con un packaging stiloso (www.apresvelo.com) .
E’ piacevole gironzolare tra Long Street – da vedere ed ammirare il Pan African Market – ed il mercato dei fiori di Adderley Street.

In un giardino bambini di ogni etnia giocano insieme, si rincorrono, cadono e sorridono. Restiamo a guardarli. Come visioni artificiali si sovrappongono immagini viste nei chilometri percorsi, township, povertà ai bordi della strada. Colori che squarciano il buio. Forse. Forse l’arcobaleno è possibile. Forse.
Da un laboratorio di moda esce l’inconfondibile voce di Mama Africa, Miriam Makeba.
Respiro le note, suoni che hanno il sapore della terra e degli alberi, di questo atelier, in cui arte e territorio si uniscono all’armonia della  musica. Sorrido al tramonto, a questa canzone Sunset Africa. Colgo l’attimo, il kairos, respiro a pieni polmoni le ultime note.
Qualche passo e dei bambini mi chiedono degli spicci. Forse, penso, forse. I loro occhi sono profondi scrutano. Spero abbiano dubbi, spero abbiano possibilità. La loro pelle è nera: la povertà ha ancora un colore della pelle, anche qui, nonostante il tramonto, nonostante l’arcobaleno, nonostante le note.
E’ come passare dallo stato gassoso a quello solido, lascio loro un po’ di rand. Vedo una Chiesa, un’agenzia di viaggio pubblicizza un viaggio a molti zeri. E’ancora troppo vicino il ’91; e tra forma e sostanza il tempo si accorcia ulteriormente. Continuo a camminare, a scorrere, fluido; stato magmatico nei miei pensieri.
Prendiamo la macchina, nel traffico di un giovedi di inverno (in Italia è estate) e con la guida a destra c’è sempre un po’ di suspence; arriviamo nel nostro alloggio , il Drey Lodge, un simpatico appartamento senza infamia né lode gestito da un chiaro discendente dei boeri, al confine tra i sobborghi di Rodenbosch e Newlands. Un altro romanzo di Deon Meyer, Safari di sangue (davvero godibile, il migliore che ho letto di questo autore) ambienta alcune scene qui, per poi snodarsi tra chilometri e paesaggi.
Querce, giardini e famosi stadi di cricket e rugby, sembra di attraversare una campagna del nord europea. Padroni portano a passeggio i propri cani. Sono così vicine e così lontane le township. Decine di chilometri ed un altro mondo. Il paese dell’arcobaleno è anche questo, lo comincio ad afferrare con chiarezza.
Al risveglio fa freddo, ma il sole preannuncia una splendida giornata. E dai prati dei sobborghi meridionali con un nuovo spartito affrontiamo e scopriamo ancora la città.
Il profilo delle acacie si staglia sui versanti delle montagne. Un film di immagini, di colori, di attimi da ricordare. Bo Kap, quartiere tipico, salvato dalla folle distruzione dell’apartheid che ha raso al suolo il suo gemello Six District, abitato dalla comunità musulmana. La mente viaggia su alcune pagine di Carta Bianca di Deaver, libro che sconsiglio vivamente (l’autore – e sto facendo outing – a me non dispiace, ma questo volume della saga di James Bond è profondo meno di una vaschetta per il ghiaccio). Il Waterfront , il vecchio porto della città, oggi salvato dall’abbandono e trasformato in un moderno polo turistico, con  vari ristoranti – che offrono ottimo pesce –artisti di strada ed offerta di escursioni in mare e nella città.

E’ dal Waterfront che ci si imbarca per la desolata e desolante Robben Island. Isola piatta, battuta dal vento e dalle intemperie, in cui la gioia è stata più forte del potere. Il seme della resistenza, della civiltà e della disobbedienza, piantato e curato dalle lacrime, dai sogni e dal sangue di prigionieri in grado di essere duri senza perdere la tenerezza, ha dato nuova dignità a tutti noi  .
Saluto le statue di Mandela, monsignor Tutu, Lutuli (fondatore ANC) e De Klerk, tutti insigniti del premio Nobel per la pace. E penso di giocare a “trova l’intruso”; c’è ve lo assicuro

: chi costruisce ha una statura etica altra rispetto a chi raccoglie (e magari fino a qualche tempo prima era un meccanismo dell’ingranaggio). Continuo a camminare, felice, in questa area che riterrei un po’ troppo turistica ovunque, ma non qui, con l’Oceano di fronte e la Table Mountain dietro. Mi gusto gli edifici vittoriani, i caffè che non vogliono hipster ed anche le foto “ricordo” con il profilo della montagna piatta.
Passando sotto la Torre dell’Orologio giunge, portato dal vento, qualche pezzo Kwailo (significa arrabbiato) e nasce dalla contaminazione tra house, atropo e beat. Un sound meticcio, denso, ricco di suoni, paradigma delle metropoli di questo paese.
Dalle note ai fiori, spartiti di musica e colori. Piante, alberi, biodiversità, gioia: tutto questo è il fantastico Kirtenbosh National Park, primo giardino botanico ad essere riconosciuto patrimonio dell’UNESCO. Ci sono oltre 22000 specie di piante, con uno sfondo ed una cornice da sogno.
E’ possibile passeggiare e vagare in questo giardino per ore, attraverso percorsi, scale e ponti.
Un nuovo tramonto e poi il buio. Saluto le prime stelle (che non riconosco), mentre prepariamo i bagagli. Giorni e notti sono volati a Città del Capo, che non mi ha deluso. E le aspettative erano alte.
Ci prepariamo ad altri orizzonti e sorprese, molto vicino, questa volta: c’è la Penisola del Capo e la leggenda in cui storia e natura danzano insieme.